venerdì 30 aprile 2010

"Volevo esorcizzare la mia fobia per il matrimonio". Incontro con Nina Di Majo e il cast di Matrimoni e altri disastri



Conferenza stampa breve ma ricca di spunti quella che si è tenuta a Milano per il film Matrimoni e altri disastri. Oltre alla regista erano presenti gli attori Margherita Buy, Fabio Volo, Francesca Inaudi e Luciana Littizzetto

Conferenza stampa breve ma non priva di tensioni quella che si è tenuta a Milano per il film Matrimoni e altri disastri. Alla presenza del cast e della regista, gli animi si sono surriscaldati quando Margherita Buy ha espresso la sua insofferenza nei confronti di chi qualifica il suo personaggio come nevrotico.

Possiamo definire Matrimoni e altri disastri un film femminista?

Nina Di Majo: “In realtà non proprio. Sicuramente tutti i personaggi femminili sono molto liberi, ma il film non può essere ridotto soltanto a questo.”

Fabio Volo, come ti sei trovato nell’interpretare il tuo personaggio?

Fabio Volo: “Il mio personaggio mi è piaciuto sin dal principio perché aveva un linguaggio politicamente scorretto. Rappresenta un mondo che viene sbrigativamente giudicato senza che lo si conosca a fondo. Nel finale poi questo suo mondo finisce con l’avere diversi punti di contatto con quello della protagonista interpretata da Margherita Buy.”

Che cosa l’ha spinta a girare questo film?

Nina Di Majo: “È nato dalla paura del matrimonio. La mia generazione ha visto di tutto, sono aumentate le separazioni e i tradimenti. Il film tenta insomma di esorcizzare la mia fobia per il matrimonio. Al tempo stesso poi volevo criticare, un po’ come nei miei primi due lungometraggi, una certa borghesia alla quale appartengo e per la quale provo una sorta di amore-odio. La protagonista si situa all’interno di questo status sociale, non a caso prende il nome della Nanà di Zola, anche se inizialmente ne è l’esatta antitesi. Trovavo interessante inoltre mettere a confronto questo mondo con quello del personaggio di Volo, un uomo che si è fatto da solo e che predilige il denaro alla cultura. Francesca Inaudi e Luciana Litizzetto escono invece dagli schemi. La prima è una manager che sposa un individuo che vive al di fuori del suo contesto, mentre la seconda è una sorta di Chaplin in gonnella. Tutti i personaggi però sono accomunati da una cosa, fanno molti errori e questo credo sia un aspetto tipico dell’umanità.”

Crede che questi due mondi possano convivere in Italia?

Nina Di Majo: “Certo. I due protagonisti si baciano!”

Margherita Buy, lei si trova sempre a suo agio a interpretare questa tipologia di personaggi molto nevrotici. Come mai?

Margherita Buy: “Onestamente trovo che questo personaggio non sia affatto nevrotico. Non capisco perché i ruoli che interpreto vengano ogni volta così definiti.”

Per quale motivo il film è ambientato in Toscana?

Nina Di Majo: “Inizialmente lo volevo ambientare a Napoli, la mia città. C’era però il problema dei rifiuti. Ho deciso quindi di girare in Toscana per il patrimonio artistico e culturale, per la natura e per la dimensione internazionale. La borghesia toscana poi mi sembrava chiusa al punto giusto.”

Che ci dice in merito alla scelta del cast?

Nina Di Majo: “Avevo in mente molti degli attori durante la stesura della sceneggiatura, soprattutto Margherita Buy. È stata una scelta collettiva in accordo con la produzione. In particolare per quel che riguarda Francesca Inaudi l’ho selezionata perché la trovo una bravissima attrice e mi aveva molto convinta nel film di Davide Ferrario, Dopo Mezzanotte. Ha questo volto alla Modigliani molto particolare e interessante che era adatto al suo personaggio.”

Francesca Inaudi: “La selezione in effetti è stata molto dura, ho fatto tre provini.”

Ultima domanda per Luciana Litizzetto. È difficile far convivere il personaggio televisivo e quello cinematografico?

Luciana Litizzetto: “In realtà no. Quest’anno ho fatto molte cose e questo personaggio è molto diverso da me, è più strampalato e rincoglionito se vogliamo. La televisione e il cinema sono due media differenti. La prima ha un impatto molto forte e lì sono io, al cinema invece sei completamente nelle mani del regista, una sorta di burattino. Onestamente adoro tutte e due le cose e sono felice di far parte di questi due mondi.”

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"Matrimoni e altri disastri" di Nina Di Majo



Pur ispirandosi alla commedia sofisticata americana degli anni Cinquanta e Sessanta, la Di Majo rimane prigioniera degli stereotipi italiani. Nonostante i riferimenti alti e le buone intenzioni, il film non colpisce nel segno e il politicamente scorretto viene spazzato via da una mancanza di cattiveria che rende tutti i personaggi gradevoli. E non bastano le ottime interpretazioni degli attori



Tantissime commedie, italiane e non, ruotano intorno al matrimonio. Un po’ per tentare di dissacrare una delle tappe fondamentali della vita di ciascun (o quasi) individuo, un po’ perché tale cerimonia è l’occasione per riflettere più argutamente sulla famiglia e per rivelare i famosi scheletri nell’armadio. Nina Di Majo, al suo terzo film dopo Autunno (1999) e L’inverno (2002), con Matrimoni e altri disastri cambia in parte registro nel tentativo di rivolgersi a un pubblico più ampio. Partendo dalla commedia sofisticata americana degli anni Cinquanta e Sessanta, la regista partenopea innesta nei protagonisti tratti tipicamente italioti, presentandoci una raffigurazione abbastanza amara di una certa borghesia, quella intellettualoide di sinistra rappresentata dal personaggio della Buy, accompagnata da una critica altrettanto risoluta alla bonaria arroganza della destra “berlusconiana”, ravvisabile in Alessandro, interpretato da Fabio Volo.



Questi due mondi così diversi si incontrano quando Nanà (la Buy appunto, antitesi ma al contempo rimando a quella creata da Zola), una quarantenne single e insoddisfatta, è costretta a organizzare il matrimonio alla sorella Benedetta, promessa in moglie al “self made man” Alessandro. Questo compito diventerà l’occasione di una serie di tante, troppe disavventure che porteranno alla maturazione e alla forte presa di coscienza dei vari personaggi. Nulla di particolarmente innovativo dunque, anche se la Di Majo si mantiene giustamente a distanza dalla volgarità e dalla scurrilità di molte commedie italiane, cercando di delineare con occhio cinico le debolezze dei protagonisti.



Manca però una componente fondamentale, quella cattiveria che soprattutto negli anni Sessanta (I mostri docet) permetteva una rappresentazione adeguata dei vizi e dei difetti umani. Tutti i personaggi del film infatti escono indenni, tutti risultano più o meno simpatici. E così si finisce col rimanere affascinati da una Buy meno nevrotica del solito, da un Volo inizialmente odioso e mano a mano sempre più affabile, da una Litizzetto che non scivola nella solita macchietta e da una Inaudi egoista ma al contempo molto dolce. Questo sottolinea l’importante apporto di un cast affiatato e ben selezionato, che non basta però a risollevare un film che ha dalla sua le buone intenzioni ma rimane al contempo prigioniero delle solite pecche di molte commedie italiane contemporanee.

Voto: 5

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sabato 10 aprile 2010

"Simon Konianski c'est moi" - Incontro con Micha Wald



"Molti dei fatti che vedete nel film mi sono accaduti direttamente. Sono storie che ho vissuto e che ho voluto riportare. Ero interessato a confrontarmi con la generazione dei settantenni e a mostrare quanto la loro visione politica sia mutata col passare degli anni. Da “comunisti” sono diventati, soprattutto in rapporto al conflitto israeliano, quasi razzisti." Micha Wald presenta il suo Simon Konianski a Milano.

Chiacchierata interessante con il giovane regista Micha Wald, che parla della natura autobiografica del suo film, dei suoi rapporti familiari, dei personaggi strampalati e dei registi ai quali si è ispirato. Con una rivelazione interessante: il viaggio dei protagonisti si rifà a un episodio fondamentale della sua vita
Simon Konianski è il mio secondo lungometraggio. All’origine del film c’è un cortometraggio del 2004, Alice et moi, nato da una mia delusione amorosa. La mia intenzione era quella di vendicarmi di tale ferita attraverso una commedia, ma alla fine mi sono reso conto che il mio alter ego, ovvero il protagonista, ne usciva malissimo. Ho deciso così di riorganizzare il discorso in un lungometraggio, anche perché il corto era andato molto bene e aveva ottenuto numerosi riconoscimenti. E così, dopo il mio primo lavoro, Voleurs de chevaux, ho cominciato questa lunga avventura”.
Colpisce molto il rapporto padre – figlio. Ci sono riferimenti autobiografici?
“Innanzitutto ci tengo a precisare che tra me e mio padre le cose funzionano. Mi sono però certamente ispirato a lui per il film. Anzi, potrei dire che Ernest è una sintesi di mio padre e mio nonno. Ero interessato a confrontarmi con la generazione dei settantenni e a mostrare quanto la loro visione politica sia mutata col passare degli anni. Da “comunisti” sono diventati, soprattutto in rapporto al conflitto israeliano, quasi razzisti”.
Che ci dice dei personaggi? Sono tutti piuttosto bizzarri.
“Il mio preferito è il coniglio. Scherzi a parte, sono affezionato a tutti i personaggi, nati in parte dalla mia fantasia e in parte dalla realtà. Lo zio Maurice ad esempio ricalca un mio parente che aveva effettivamente combattuto nella guerra di Spagna e dopo questa era un po’ uscito di senno”.
E il viaggio? Ha una base concreta o immaginaria?
“Ho compiuto un viaggio simile nel 2002 quando è morta mia nonna. E molti dei fatti che vedete nel film mi sono accaduti direttamente. Ad esempio la scena alla dogana è reale. Sono storie che ho vissuto e che ho voluto riportare”.
Il film è ricco di conflitti familiari. Anche questi sono autobiografici?
“Non proprio, per fortuna. Ho due figli piccoli e per il momento non ho avuto contrasti con loro. Il problema della circoncisione del più grande me lo sono posto anch’io però. Da un lato c’ero io che non volevo, dall’altro mia moglie, non ebrea, che spingeva perché ciò avvenisse nella convinzione che la mia tradizione e la mia cultura venissero tramandate. Questo è un aspetto serio che merita una lunga riflessione. I “vecchi” rabbini temono che le nuove generazioni dimentichino i loro precetti”.
Ultima domanda: che cosa l’ha influenzata di più a livello stilistico? Il cinema americano indipendente?
“Soprattutto i fratelli Coen con Fargo e Il grande Lebowski e Wes Anderson per gli oggetti e la scenografia. Devo dire però che il mio film era già pieno di suo, per cui sono partito da una buona base e mi sono fatto contaminare solo in seguito dai miei gusti cinematografici”.

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Simon Konianski di Micha Wald (2009)



C’è tanto cinema indipendente americano nel secondo lungometraggio del belga Micha Wald: personaggi strampalati e bizzarri alla Wes Anderson che si muovono all’interno di situazioni tipicamente coeniane. Il tutto in un on the road che è anche raffigurazione di tre differenti generazioni e del loro modo di porsi nei confronti della tradizione ebraica. Con una vena politicamente scorretta. Presentato nella sezione “L’altro cinema – Extra” del Festival Internazionale del Film di Roma, edizione 2009.



Distribuito in Italia da Fandango, sempre pronta a scommettere su film coraggiosi e politicamente scorretti, Simon Konianski rappresenta l’evoluzione naturale del cortometraggio d’esordio Alice et Moi (2004), premiato con numerosi riconoscimenti in diversi festival internazionali. Muovendo da vicende fortemente autobiografiche, il giovane regista Micha Wald propone un on the road spassoso e irriverente che si rifà a molto cinema americano indipendente, sia per le situazioni narrate che per la delineazione dei personaggi. Se molti hanno visto comunanze tra questo film e i vari Little Miss Sunshine, Ogni cosa è illuminata e via dicendo, due appaiono i modelli di riferimento indiscutibili: Wes Anderson per i protagonisti strampalati e bizzarri e per l’attenzione maniacale per gli oggetti, e i fratelli Coen per una certa sfacciataggine di fondo e per la matrice yiddish della vicenda.



Simon Konianski mette infatti a confronto, un po’ come A Serious Man, tre differenti generazioni di ebrei. Da un lato abbiamo Ernest, ex deportato e convinto sostenitore della tradizione. Simon è invece il “ribelle” di turno, stanco delle continue storie sulla guerra del padre e a favore dei palestinesi nel conflitto israeliano. Hadrien infine rappresenta il nuovo che avanza, affascinato dai racconti del nonno e figlio di una danzatrice goy (non ebrea). Il viaggio, che come sempre negli on the road è spirituale oltre che fisico, prende avvio proprio dalla morte del vecchio Ernest e dalla sua ultima volontà di farsi seppellire in Ucraina a fianco del suo primo amore.



Naturalmente il percorso sarà colmo di momenti rocamboleschi e spassosi, con tanto di fantasma del padre che compare ripetutamente a Simon, alternati però a un vero e proprio tragitto nella e della memoria, che giunge al culmine nella sequenza ambientata nel campo di concentramento e in quella della sepoltura finale. E alla presa di coscienza si abbinerà il processo di maturazione (non completa) del protagonista, che durante il viaggio si avvicinerà al figlio e arriverà a conoscere meglio sia il padre che i due strampalati zii Maurice e Mala (forse i più sgangherati della famiglia). Non male per un regista ai suoi primi passi che, sebbene non riesca evidentemente a raggiungere la grandezza dei modelli a cui si ispira, propone un concentrato di autoironia e freschezza non comune. Aspetto che rimanda a un altro grande autore di matrice ebraica, Woody Allen, con persino una citazione quasi esplicita del suo episodio di New York Stories “Edipo relitto”. Con Simon Konianski insomma si ride di gusto (anche se non tutte le trovate sono divertenti) e lo si fa all’insegna del politicamente scorretto. Che cosa chiedere di più a un road movie irriverente?

Voto: 6,5

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mercoledì 7 aprile 2010

Vincere di Marco Bellocchio (2009)



Regia: Marco Bellocchio
Soggetto: Marco Bellocchio
Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Daniela Ceselli
Fotografia: Daniele Ciprì
Montaggio: Francesca Calvelli
Musica: Carlo Crivelli
Scenografia: Marco Dentici
Costumi: Sergio Ballo
Interpreti: Giovanna Mezzogiorno (Ida Dalser), Filippo Timi (Benito Mussolini), Fausto Russo Alesi (Riccardo Paicher), Michela Cescon (Rachele Guidi), Pier Giorgio Bellocchio (Pietro Fedele), Corrado Invernizzi (Dottor Cappelletti), Paolo Pierobon (Giulio Bernardi), Bruno Cariello (Giudice), Francesca Picozza (Adelina), Simona Nobili (Madre superiora), Vanessa Scalera (Suora misericordiosa)
Produzione: Mario Gianani per Offside, Rai Cinema, Celluloid Dreams Productions in collaborazione con Istituto Luce
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 128’
Origine: Italia/Francia, 2009

MARCO BELLOCCHIO, UN REGISTA ANTICONFORMISTA



Nato e cresciuto a Bobbio, Marco Bellocchio è uno dei registi più anticonformisti della storia del cinema italiano. Il suo esordio risale al 1965 con I pugni in tasca, un film rivoluzionario per l’epoca che, accolto con grande entusiasmo dalla critica, ritrae con punte di crudeltà e sfrontatezza un ragazzo che, oppresso dai genitori borghesi, giunge a un atto di estrema follia. Una tale opera prima genera inevitabilmente grandi attese nei confronti del regista, erede della lezione neorealista e fortemente influenzato da Antonioni. Con La Cina è vicina (1967), Bellocchio mantiene i temi del suo esordio ma con risultati inferiori. Dopo il corale Amore e rabbia (1969), nel 1972 esce Sbatti il mostro in prima pagina, sceneggiato dal grande Goffredo Fofi, una raffigurazione amara e critica del giornalismo italiano. Dello stesso anno è Nel nome del padre che, con chiari riferimenti autobiografici, sottolinea le contraddizioni delle istituzioni educative cattoliche. Con il bellissimo documentario Matti da slegare (1975) e Marcia Trionfale (1976), Bellocchio sposta il tiro contro altre due istituzioni: il manicomio e la caserma. Segue un periodo grigio per l’autore che, tra adattamenti letterari, ritorni ai temi iniziali e una collaborazione infelice con lo psicanalista Massimo Fagioli, sciorina una serie di lavori pretenziosi e a tratti incomprensibili. Torna ai suoi fasti con Il principe di Homburg (1996), un adattamento onirico della tragedia di E. von Kleist, e La balia (1999), film ispirato a Pirandello che ha come tema principale l’incapacità di amare. Dopo lo straordinario documentario Addio del passato (2000), dedicato a Giuseppe Verdi, con L’ora di religione – Il sorriso di mia madre (2002) Bellocchio affronta una questione delicata mettendo in scena un pittore che, venuto a conoscenza della santificazione della madre, non sa se difendere la sua laicità o assecondare i familiari che vedono in tutto questo un’occasione di guadagno e prestigio. Nel 2003 cambia completamente registro e torna agli anni di piombo con Buongiorno, notte, racconto amaro e sofferto del sequestro Moro. Gli ultimi suoi lavori sono il documentario Sorelle (2006), Il regista di matrimoni (2006), opera meta cinematografica e riflessione sul laicismo e Vincere (2009), il film di questa sera, che racconta la drammatica esistenza di Ida Dalser, la prima moglie di Benito Mussolini.

VINCERE, UN MELODRAMMA STORICO



Presentato in concorso alla scorsa edizione del Festival di Cannes, Vincere ha scaturito un dibattito acceso che ha visto contrapposte da una parte la critica italiana e dall’altra quella straniera (in particolare francese). Bellocchio ha infatti denunciato un’accoglienza piuttosto fredda riservata dalla stampa del Belpaese al suo film, a suo avviso ingiustificabile soprattutto alla luce dell’approvazione unanime internazionale (Positif e i Cahiers du cinema si sono spesi in lunghi elogi). Partendo da una vicenda sconosciuta ai più, il regista ha infatti costruito un melodramma che rielabora la vita di Ida Dalser, la prima amante di Mussolini nonché madre del suo primogenito, che si batte contro tutto e tutti per rivendicare la sua relazione con il Duce. Un episodio marginale all’interno della Storia italiana, già analizzato in precedenza dal documentario Il segreto di Mussolini di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli, e dai libri La moglie di Mussolini di Marco Zeni e Il figlio segreto del duce di Alfredo Pieroni. Un fatto sicuramente interessante che ha permesso a Bellocchio di inserire all’interno del suo personale percorso autoriale una figura femminile di indubbio fascino, interpretata in maniera ineccepibile da Giovanna Mezzogiorno. A metà tra melodramma e analisi storica, il film ripercorre infatti alcuni temi cari al regista.



Torna una critica dura e senza appello al manicomio, istituzione che manca di credibilità e al servizio del potere. Potere rappresentato da quel regime fascista contro il quale Bellocchio non si scaglia direttamente, ma attraverso la psicologia dei suoi personaggi, alternando alla narrazione le immagini in bianco e nero dei cinegiornali dell’epoca. Come sempre il regista non lesina stilettate alle autorità: la Dalser sostiene a viva voce la sua relazione e non si arrende a quanti le consigliano o le intimano di fingere, fino ad arrivare a rivolgersi direttamente al Papa. Ed è curioso come in un periodo “anormale” come quello fascista la normalità finisca col divenire devianza e l’unica salvezza per la donna risieda nella finzione, allontanata con tenacia. Il regista piacentino è anche notoriamente attratto dalla ribellione, uno dei topoi della sua produzione, ed è per questo che una storia come quella di Vincere e un personaggio come quello della Dalser lo hanno interessato a tal punto. Il film è infatti il racconto di una rivolta, di una incapacità di sottomettersi al potere, sia a livello politico che a livello personale. Da I pugni in tasca a oggi il percorso di Bellocchio risulta uno dei più coerenti all’interno del panorama cinematografico italiano. E anche quelli che lo hanno criticato a Cannes saranno concordi nel ritenerlo uno degli autori più influenti della sua generazione.

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martedì 30 marzo 2010

Busto Arsizio Film Festival VIII - Serata finale



Chiusura con i fuochi d’artificio per il Busto Arsizio Film Festival che, tra i tanti ospiti, accoglie sul palco anche Oona Chaplin, la nipote del grande Charlie. Tra i film più premiati si segnalano La bella società di Gian Paolo Cugno e La straniera di Marco Turco. A East West East di Gjergj Xhuvani va il premio principale.

Chiusura con i fuochi d’artificio per questa ottava edizione del Busto Arsizio Film Festival, forse la migliore in assoluto. Una settimana che ha ribadito l’importanza del cinema all’interno della cultura italiana e che ha dato un forte segnale della rilevanza di un progetto che ha portato anche alla costituzione di una Film Commission e di un Istituto Cinematografico all’interno della città. Questo dimostra l’ottimo lavoro svolto da tutti gli organizzatori e in particolare da Gabriele Tosi, presidente del Festival, e da Vittorio Giacci, direttore artistico. La serata di premiazione è quindi un’occasione per festeggiare e per ringraziare tutti quelli che hanno contribuito a rendere il BAFF una realtà concreta e viva. E per l’occasione Busto Arsizio ha voluto stupire con tanto di red carpet posto nei pressi del cinema Sociale e con una serie di riconoscimenti da attribuire ai film del concorso Made in Italy. Premi scelti da una giuria capitanata da Carlo Lizzani con l’ausilio di Marco Pontecorvo, Isabella Ragonese, Alessandro D’Alatri e Italo Moscati. Tra i film più gratificati si segnalano La bella società di Gian Paolo Cugno (miglior produzione, migliore scenografia, migliore attore non protagonista – David Coco, riconoscimento del pubblico) e La straniera di Marco Turco (miglior montaggio, migliore attrice protagonista – Kaltoum Boufangacha, riconoscimento del pubblico). Per quel che riguarda il fuori concorso, le scuole hanno voluto premiare il film Generazione 1000 euro di Massimo Venier e l’Istituto Cinematografico Michelangelo Antonioni ha conferito un riconoscimento all’attrice Isabella Ragonese. Molti gli ospiti illustri che si sono susseguiti sul palco: oltre ai sopra citati giurati e registi, Enrico Ruggeri ha ritirato personalmente il premio alla migliore colonna sonora per East West East, Agnese Nano è stata selezionata come migliore attrice non protagonista per Aria e Massimo Poggio come migliore attore protagonista per Il compleanno. Ma il BAFF ha da sempre una sua dimensione internazionale, assicurata in questo caso da due figure di tutto rispetto: Oona Chaplin, attrice e nipote dell’indimenticabile Charlie e Signe Baumane, artista di riferimento dell’animazione indipendente newyorchese. Finale col botto con i tre premi più significativi: quello alla migliore opera prima che va a L’uomo fiammifero di Marco Chiarini, quello alla migliore regia per Felice Farina con il suo La fisica dell’acqua e soprattutto quello al miglior film, East West East di Gjergj Xhuvani. La cerimonia si conclude con i doverosi ringraziamenti agli organizzatori e con la proiezione del film vincitore, nell’attesa di una nuova edizione ancora più ricca e interessante.

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Mar Nero di Federico Bondi (2008)



Forte dei numerosi riconoscimenti ottenuti in diversi Festival (soprattutto a Locarno), Mar Nero, opera prima di Federico Bondi, esce anche per il mercato Home Video in una versione piuttosto essenziale. Buona la resa visiva, sufficiente l’audio e abbastanza trascurabili gli extra. Da Multimedia San Paolo

Piccolo film italiano accolto con grande entusiasmo al Festival di Locarno, Mar Nero, opera prima del giovane regista Federico Bondi, esce per il mercato Home Video dopo una distribuzione in sala non esattamente capillare. È questa l’occasione per recuperare uno spaccato intimo e personale, oltre che in parte autobiografico, sulle difficoltà della senilità e sui faticosi rapporti tra anziani e badanti (spesso non in regola). Per l’uscita Home Video Multimedia San Paolo ha optato per un’edizione piuttosto essenziale, caratterizzata da una resa video abbastanza soddisfacente, con immagini nitide e croma ben bilanciato, e da un audio sobrio, costituito da un’unica traccia italiana in 2.0 e da un utilizzo inconsistente del subwoofer. Se tutto sommato era lecito attendersi un tale modus operandi per un film rivolto a un target sostanzialmente ristretto, sorprende in negativo invece il comparto extra. Il trailer, la galleria fotografica e soprattutto un backstage di soli 5 minuti, che contiene due mini interviste al regista e alla straordinaria attrice Ilaria Occhini, sono dei meri riempitivi che non approfondiscono la realizzazione di un’opera che racchiude svariati argomenti di discussione. Ed è un peccato perché nel dietro le quinte emergono il carattere autobiografico del film e una serie di altri temi che avrebbero sicuramente meritato uno spazio più ampio magari in uno speciale approfondito. Ma si sa, chi si accontenta gode.

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mercoledì 24 marzo 2010

Recensioni in pillole - 1




Doomsday di Neil Marshall (2008). Sky Cinema.
1997: Fuga da New York, 28 giorni dopo, Interceptor, Alien e persino Exaclibur, questi i film citati in maniera spudorata da Neil Marshall, al suo terzo film dopo Dog Soldiers e The Descent, uno degli horror più convincenti degli ultimi anni. Peccato che alla lunga i rimandi si accumulino e poco ci si affezioni a un'eroina che è il contraltare femminile di Jena Plissken. Recuperatevi gli originali.
Voto: 5



Live! Ascolti record al primo colpo di Bill Guttentag (2007). Sky Cinema.
Partendo da un'idea controversa, il regista, premio Oscar per due documentari, sfodera un attacco alla Tv dei Reality facendo leva sulla fascinazione della morte. A metà tra mockumentary e film di finzione tout court, lo spunto di partenza non basta e il finale contraddittorio non convince. Tanto rumore per nulla. Consolatevi con la roulette russa del memorabile Il cacciatore di Cimino.
Voto: 4



Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud (1986). BAFF VIII.
Tratto dal romanzo di Umberto Eco, il film ne è un'inevitabile semplificazione che riduce i vari piani di lettura della fonte di riferimento. Ciononostante la messa in scena, gli attori (soprattutto Sean Connery) e la costruzione narrativa rendono giustizia al libro. E la visione in sala dopo 25 anni assicura il giusto effetto nostalgia.
Voto: 7



Il portaborse di Daniele Luchetti (1991). Sky Cinema.
Film politico di denuncia con Nanni Moretti nei panni di un arrogante e cinico ministro. Erede della lezione dei Petri e dei Rosi, Lucchetti affronta con pessimismo e amarezza le iniquità della "cosa pubblica" e restituisce un quadro impietoso della realtà di allora (e perché no anche di oggi). Straordinario Silvio Orlando. Attualissimo.
Voto: 7



La cosa giusta di Marco Campogiani (2009). BAFF VIII.
Partendo da uno spunto di cronaca, Campogiani, alla sua opera prima, parla di temi importanti con toni lievi da commedia. Nonostante qualche difetto attribuibile alla non esperienza, il film tiene nella sua costruzione basata completamente sull'attesa. Peccato per una messa in scena sin troppo televisiva. Ricorda per il mood La giusta distanza di Mazzacurati.
Voto: 6

martedì 23 marzo 2010

Alice in Wonderland di Tim Burton (2010)



Dopo una lunga attesa, Tim Burton torna sugli schermi con una trasposizione libera e personale dei due romanzi di Lewis Carrol Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò. Un’occasione unica per far coincidere due mondi così simili e al contempo così diversi e una grossa soddisfazione per il visionario di Burbank che rientra alla Disney come un figliol prodigo, fattore che testimonia il suo ormai indiscutibile status di genio.



Va da sé che una tale operazione generi non poche aspettative e una certa curiosità nel valutare come Burton riesca a innestare il suo retroterra gotico all’interno di una storia che ha nel nonsense la sua valvola di sfogo. Per la verità della “Alice” letteraria ci rimane ben poco. La vicenda omette il viaggio narrato nei libri di Carrol (restituito soltanto in un breve flashback) e ci presenta una protagonista diciannovenne, in età da marito, che, decisa a sfuggire alle regole dell’Inghilterra Vittoriana, segue nuovamente il Bianconiglio in una nuova avventura nel paese delle meraviglie. Oltre all’impianto narrativo, in questa trasposizione viene meno l’andamento caotico del testo di riferimento in favore di una trama più canonica che contiene numerosi rimandi al fantasy di nuova generazione.



Paradossalmente il film, dopo un buon preludio, con l’allontanarsi dal mondo di Carrol finisce col distanziarsi anche dalle atmosfere burtoniane, restituendo una standardizzazione disneyana sia di ambienti che di personaggi. Il cappellaio matto, Pinco Panco e Panco Pinco, la regina rossa e la regina bianca sono tanto caratterizzati a livello fisico quanto piatti e sostanzialmente poco interessanti se analizzati sul piano narrativo e, cosa incredibile a dirsi, neanche lontanamente paragonabili ai meravigliosi freaks che da sempre popolano il suo cinema. A onor del vero gli attori fanno il possibile per dare il loro meglio, su tutti spicca l’ottima interpretazione di Helena Bonham Carter nella parte della “capocciona rossa”, ma restano limitati all’interno di uno script che pare virare verso una semplificazione tematica, forse per rivolgersi a un target più ampio (e gli incassi lo dimostrano!). E così, nonostante indubbi tocchi di classe e una scenografia straordinaria (penalizzata in parte da un 3D realizzato in postproduzione e sostanzialmente inefficace), il film si trascina stancamente verso il finale, spiazzante e al contempo poco credibile, che denota una rilettura in chiave femminista della fonte di riferimento.



Insomma, Burton con Alice non fa “meraviglie” e anzi raggiunge probabilmente il punto più basso della sua parabola autoriale. Il talento allontanato da Disney per la sua eccessiva autonomia, nel suo ritorno all’ovile finisce con l’imprigionare il suo estro. Speriamo per il bene del cinema che il prossimo progetto restituisca credibilità a un vero e proprio genio, che ultimamente (anche Sweeney Todd non aveva entusiasmato) sembra un po’ a corto di idee.

Voto: 5,5

Busto Arsizio Film Festival - Partita l'VIII Edizione



Dopo Peter Fonda il BAFF punta su F. Murray Abraham, premio Oscar per la sua interpretazione di Salieri in Amadeus, come ideale ciliegina sulla torta di un festival sempre più ambizioso che, oltre al concorso “Made in Italy Anteprime” e a quello di sceneggiatura, omaggia i fratelli Taviani e lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni. Tra gli ospiti anche Umberto Eco e Signe Baumane. Sino al 27 marzo. Direttore artistico: Vittorio Giacci.

Giunto alla sua ottava edizione, il Busto Arsizio Film Festival è ormai divenuto una realtà di un certo peso all’interno della cultura cinefila dell’Alto Milanese. Grazie all’apporto di tutta la città, alla cooperazione con i paesi limitrofi e a un’ottima macchina organizzativa, negli anni si sono susseguiti ospiti di richiamo: Mario Monicelli, Francis Ford Coppola, Pupi Avati, Ursula Andress e Peter Fonda, solo per citarne alcuni. E i concorsi, quello “Made in Italy Anteprime” e quello di sceneggiatura, sono cresciuti gradualmente in contemporanea all’affermazione del festival. Per questa edizione gli organizzatori hanno voluto invitare, come ideale ciliegina sulla torta, F. Murray Abraham, attore di caratura internazionale nonché premio Oscar per la magistrale interpretazione di Salieri in Amadeus. Oltre al film qui citato, il BAFF proietterà Il nome della rosa che sarà preceduto da un incontro tra la star e Umberto Eco. Di grande interesse anche le rassegne collaterali che prevedono un omaggio ai fratelli Taviani (Good Morning Babilonia, La notte di San Lorenzo, Padre padrone e Allonsanfan) e allo sceneggiatore Luciano Vincenzoni (con la proiezione del documentario Il falso bugiardo e dell’intramontabile La grande guerra di Monicelli), oltre alle consuete “Made in Italy – Scuole” e alle “Giornate del cinema d’animazione”, con Signe Baumane come ospite, che strizzano l’occhio a un pubblico più giovane. Detto del fuori concorso, particolarmente interessante è anche il concorso di film italiani in anteprima. L’opera di maggior richiamo è senza dubbio La pivellina di Tizza Covi e Rainer Frimmel, presentato con grande successo all’interno della Quinzaine des Realisateurs dello scorso festival di Cannes, e probabilissimo vincitore. Tra gli altri, dovrà vedersela con L’uomo fiammifero di Marco Chiarini, L’ultima estate di Eleonora Giorgi e La fisica dell’acqua di Felice Farina. Insomma, un programma appetitoso per gli appassionati di cinema dell’Alto Milanese che avrà come filo conduttore il tema: “Figli di un padre o figli di nessuno?”. Fino al 27 marzo tra Busto, Gallarate, Legnano, Castellanza, Samarate, Cassano Magnago e Olgiate Olona.

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mercoledì 17 marzo 2010

Benvenuti in Videodrome. Gloria e vita alla nuova carne


Oltre alle collaborazioni con diverse riviste online di cinema (Sentieri Selvaggi, Cinema4stelle, Cineclick, Cineforme e Movieplayer), ho deciso di aprire un mio blog personale per raccogliere in un unicum i commenti, gli articoli, le recensioni e i dibattiti che gravitano intorno alla settima amatissima arte. Una passione che ha da sempre contraddistinto la mia esistenza (che va oltre al quarto di secolo) e che spero un giorno di poter trasformare in lavoro, anche se in questo periodo il tutto sembra decisamente utopico. La mia laurea in lettere, unita a un Master in Comunicazione e promozione del cinema, a 3 mesi di stage nella straordinaria Casa Editrice Il Castoro e a un altrettanto formativo stage di Critica Cinematografica in quel di Roma (Ente Nazionale dello spettacolo + Cahiers du cinema) infatti non mi hanno ancora assicurato la pagnotta, ma ciononostante non ho assolutamente intenzione di demordere. Proprio per questo motivo ho deciso di crearmi un mio blog personale, una sorta di archivio delle mie passioni cinefile, nonché un itinerario della mia evoluzione come fruitore-appassionato di cinema. Quale miglior titolo se non un omaggio a uno dei registi che più hanno cambiato il mio modo di intendere la settima arte, quel David Cronenberg che con "Videodrome" ha creato uno dei capolavori assoluti degli anni '80 (e forse la sua opera migliore in assoluto). Se solo riuscirò a catturare anche pochi lettori, metà delle mie intenzioni saranno soddisfatte. Questo è quanto e "Gloria e vita alla nuova carne".