venerdì 30 aprile 2010

"Volevo esorcizzare la mia fobia per il matrimonio". Incontro con Nina Di Majo e il cast di Matrimoni e altri disastri



Conferenza stampa breve ma ricca di spunti quella che si è tenuta a Milano per il film Matrimoni e altri disastri. Oltre alla regista erano presenti gli attori Margherita Buy, Fabio Volo, Francesca Inaudi e Luciana Littizzetto

Conferenza stampa breve ma non priva di tensioni quella che si è tenuta a Milano per il film Matrimoni e altri disastri. Alla presenza del cast e della regista, gli animi si sono surriscaldati quando Margherita Buy ha espresso la sua insofferenza nei confronti di chi qualifica il suo personaggio come nevrotico.

Possiamo definire Matrimoni e altri disastri un film femminista?

Nina Di Majo: “In realtà non proprio. Sicuramente tutti i personaggi femminili sono molto liberi, ma il film non può essere ridotto soltanto a questo.”

Fabio Volo, come ti sei trovato nell’interpretare il tuo personaggio?

Fabio Volo: “Il mio personaggio mi è piaciuto sin dal principio perché aveva un linguaggio politicamente scorretto. Rappresenta un mondo che viene sbrigativamente giudicato senza che lo si conosca a fondo. Nel finale poi questo suo mondo finisce con l’avere diversi punti di contatto con quello della protagonista interpretata da Margherita Buy.”

Che cosa l’ha spinta a girare questo film?

Nina Di Majo: “È nato dalla paura del matrimonio. La mia generazione ha visto di tutto, sono aumentate le separazioni e i tradimenti. Il film tenta insomma di esorcizzare la mia fobia per il matrimonio. Al tempo stesso poi volevo criticare, un po’ come nei miei primi due lungometraggi, una certa borghesia alla quale appartengo e per la quale provo una sorta di amore-odio. La protagonista si situa all’interno di questo status sociale, non a caso prende il nome della Nanà di Zola, anche se inizialmente ne è l’esatta antitesi. Trovavo interessante inoltre mettere a confronto questo mondo con quello del personaggio di Volo, un uomo che si è fatto da solo e che predilige il denaro alla cultura. Francesca Inaudi e Luciana Litizzetto escono invece dagli schemi. La prima è una manager che sposa un individuo che vive al di fuori del suo contesto, mentre la seconda è una sorta di Chaplin in gonnella. Tutti i personaggi però sono accomunati da una cosa, fanno molti errori e questo credo sia un aspetto tipico dell’umanità.”

Crede che questi due mondi possano convivere in Italia?

Nina Di Majo: “Certo. I due protagonisti si baciano!”

Margherita Buy, lei si trova sempre a suo agio a interpretare questa tipologia di personaggi molto nevrotici. Come mai?

Margherita Buy: “Onestamente trovo che questo personaggio non sia affatto nevrotico. Non capisco perché i ruoli che interpreto vengano ogni volta così definiti.”

Per quale motivo il film è ambientato in Toscana?

Nina Di Majo: “Inizialmente lo volevo ambientare a Napoli, la mia città. C’era però il problema dei rifiuti. Ho deciso quindi di girare in Toscana per il patrimonio artistico e culturale, per la natura e per la dimensione internazionale. La borghesia toscana poi mi sembrava chiusa al punto giusto.”

Che ci dice in merito alla scelta del cast?

Nina Di Majo: “Avevo in mente molti degli attori durante la stesura della sceneggiatura, soprattutto Margherita Buy. È stata una scelta collettiva in accordo con la produzione. In particolare per quel che riguarda Francesca Inaudi l’ho selezionata perché la trovo una bravissima attrice e mi aveva molto convinta nel film di Davide Ferrario, Dopo Mezzanotte. Ha questo volto alla Modigliani molto particolare e interessante che era adatto al suo personaggio.”

Francesca Inaudi: “La selezione in effetti è stata molto dura, ho fatto tre provini.”

Ultima domanda per Luciana Litizzetto. È difficile far convivere il personaggio televisivo e quello cinematografico?

Luciana Litizzetto: “In realtà no. Quest’anno ho fatto molte cose e questo personaggio è molto diverso da me, è più strampalato e rincoglionito se vogliamo. La televisione e il cinema sono due media differenti. La prima ha un impatto molto forte e lì sono io, al cinema invece sei completamente nelle mani del regista, una sorta di burattino. Onestamente adoro tutte e due le cose e sono felice di far parte di questi due mondi.”

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"Matrimoni e altri disastri" di Nina Di Majo



Pur ispirandosi alla commedia sofisticata americana degli anni Cinquanta e Sessanta, la Di Majo rimane prigioniera degli stereotipi italiani. Nonostante i riferimenti alti e le buone intenzioni, il film non colpisce nel segno e il politicamente scorretto viene spazzato via da una mancanza di cattiveria che rende tutti i personaggi gradevoli. E non bastano le ottime interpretazioni degli attori



Tantissime commedie, italiane e non, ruotano intorno al matrimonio. Un po’ per tentare di dissacrare una delle tappe fondamentali della vita di ciascun (o quasi) individuo, un po’ perché tale cerimonia è l’occasione per riflettere più argutamente sulla famiglia e per rivelare i famosi scheletri nell’armadio. Nina Di Majo, al suo terzo film dopo Autunno (1999) e L’inverno (2002), con Matrimoni e altri disastri cambia in parte registro nel tentativo di rivolgersi a un pubblico più ampio. Partendo dalla commedia sofisticata americana degli anni Cinquanta e Sessanta, la regista partenopea innesta nei protagonisti tratti tipicamente italioti, presentandoci una raffigurazione abbastanza amara di una certa borghesia, quella intellettualoide di sinistra rappresentata dal personaggio della Buy, accompagnata da una critica altrettanto risoluta alla bonaria arroganza della destra “berlusconiana”, ravvisabile in Alessandro, interpretato da Fabio Volo.



Questi due mondi così diversi si incontrano quando Nanà (la Buy appunto, antitesi ma al contempo rimando a quella creata da Zola), una quarantenne single e insoddisfatta, è costretta a organizzare il matrimonio alla sorella Benedetta, promessa in moglie al “self made man” Alessandro. Questo compito diventerà l’occasione di una serie di tante, troppe disavventure che porteranno alla maturazione e alla forte presa di coscienza dei vari personaggi. Nulla di particolarmente innovativo dunque, anche se la Di Majo si mantiene giustamente a distanza dalla volgarità e dalla scurrilità di molte commedie italiane, cercando di delineare con occhio cinico le debolezze dei protagonisti.



Manca però una componente fondamentale, quella cattiveria che soprattutto negli anni Sessanta (I mostri docet) permetteva una rappresentazione adeguata dei vizi e dei difetti umani. Tutti i personaggi del film infatti escono indenni, tutti risultano più o meno simpatici. E così si finisce col rimanere affascinati da una Buy meno nevrotica del solito, da un Volo inizialmente odioso e mano a mano sempre più affabile, da una Litizzetto che non scivola nella solita macchietta e da una Inaudi egoista ma al contempo molto dolce. Questo sottolinea l’importante apporto di un cast affiatato e ben selezionato, che non basta però a risollevare un film che ha dalla sua le buone intenzioni ma rimane al contempo prigioniero delle solite pecche di molte commedie italiane contemporanee.

Voto: 5

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sabato 10 aprile 2010

"Simon Konianski c'est moi" - Incontro con Micha Wald



"Molti dei fatti che vedete nel film mi sono accaduti direttamente. Sono storie che ho vissuto e che ho voluto riportare. Ero interessato a confrontarmi con la generazione dei settantenni e a mostrare quanto la loro visione politica sia mutata col passare degli anni. Da “comunisti” sono diventati, soprattutto in rapporto al conflitto israeliano, quasi razzisti." Micha Wald presenta il suo Simon Konianski a Milano.

Chiacchierata interessante con il giovane regista Micha Wald, che parla della natura autobiografica del suo film, dei suoi rapporti familiari, dei personaggi strampalati e dei registi ai quali si è ispirato. Con una rivelazione interessante: il viaggio dei protagonisti si rifà a un episodio fondamentale della sua vita
Simon Konianski è il mio secondo lungometraggio. All’origine del film c’è un cortometraggio del 2004, Alice et moi, nato da una mia delusione amorosa. La mia intenzione era quella di vendicarmi di tale ferita attraverso una commedia, ma alla fine mi sono reso conto che il mio alter ego, ovvero il protagonista, ne usciva malissimo. Ho deciso così di riorganizzare il discorso in un lungometraggio, anche perché il corto era andato molto bene e aveva ottenuto numerosi riconoscimenti. E così, dopo il mio primo lavoro, Voleurs de chevaux, ho cominciato questa lunga avventura”.
Colpisce molto il rapporto padre – figlio. Ci sono riferimenti autobiografici?
“Innanzitutto ci tengo a precisare che tra me e mio padre le cose funzionano. Mi sono però certamente ispirato a lui per il film. Anzi, potrei dire che Ernest è una sintesi di mio padre e mio nonno. Ero interessato a confrontarmi con la generazione dei settantenni e a mostrare quanto la loro visione politica sia mutata col passare degli anni. Da “comunisti” sono diventati, soprattutto in rapporto al conflitto israeliano, quasi razzisti”.
Che ci dice dei personaggi? Sono tutti piuttosto bizzarri.
“Il mio preferito è il coniglio. Scherzi a parte, sono affezionato a tutti i personaggi, nati in parte dalla mia fantasia e in parte dalla realtà. Lo zio Maurice ad esempio ricalca un mio parente che aveva effettivamente combattuto nella guerra di Spagna e dopo questa era un po’ uscito di senno”.
E il viaggio? Ha una base concreta o immaginaria?
“Ho compiuto un viaggio simile nel 2002 quando è morta mia nonna. E molti dei fatti che vedete nel film mi sono accaduti direttamente. Ad esempio la scena alla dogana è reale. Sono storie che ho vissuto e che ho voluto riportare”.
Il film è ricco di conflitti familiari. Anche questi sono autobiografici?
“Non proprio, per fortuna. Ho due figli piccoli e per il momento non ho avuto contrasti con loro. Il problema della circoncisione del più grande me lo sono posto anch’io però. Da un lato c’ero io che non volevo, dall’altro mia moglie, non ebrea, che spingeva perché ciò avvenisse nella convinzione che la mia tradizione e la mia cultura venissero tramandate. Questo è un aspetto serio che merita una lunga riflessione. I “vecchi” rabbini temono che le nuove generazioni dimentichino i loro precetti”.
Ultima domanda: che cosa l’ha influenzata di più a livello stilistico? Il cinema americano indipendente?
“Soprattutto i fratelli Coen con Fargo e Il grande Lebowski e Wes Anderson per gli oggetti e la scenografia. Devo dire però che il mio film era già pieno di suo, per cui sono partito da una buona base e mi sono fatto contaminare solo in seguito dai miei gusti cinematografici”.

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Simon Konianski di Micha Wald (2009)



C’è tanto cinema indipendente americano nel secondo lungometraggio del belga Micha Wald: personaggi strampalati e bizzarri alla Wes Anderson che si muovono all’interno di situazioni tipicamente coeniane. Il tutto in un on the road che è anche raffigurazione di tre differenti generazioni e del loro modo di porsi nei confronti della tradizione ebraica. Con una vena politicamente scorretta. Presentato nella sezione “L’altro cinema – Extra” del Festival Internazionale del Film di Roma, edizione 2009.



Distribuito in Italia da Fandango, sempre pronta a scommettere su film coraggiosi e politicamente scorretti, Simon Konianski rappresenta l’evoluzione naturale del cortometraggio d’esordio Alice et Moi (2004), premiato con numerosi riconoscimenti in diversi festival internazionali. Muovendo da vicende fortemente autobiografiche, il giovane regista Micha Wald propone un on the road spassoso e irriverente che si rifà a molto cinema americano indipendente, sia per le situazioni narrate che per la delineazione dei personaggi. Se molti hanno visto comunanze tra questo film e i vari Little Miss Sunshine, Ogni cosa è illuminata e via dicendo, due appaiono i modelli di riferimento indiscutibili: Wes Anderson per i protagonisti strampalati e bizzarri e per l’attenzione maniacale per gli oggetti, e i fratelli Coen per una certa sfacciataggine di fondo e per la matrice yiddish della vicenda.



Simon Konianski mette infatti a confronto, un po’ come A Serious Man, tre differenti generazioni di ebrei. Da un lato abbiamo Ernest, ex deportato e convinto sostenitore della tradizione. Simon è invece il “ribelle” di turno, stanco delle continue storie sulla guerra del padre e a favore dei palestinesi nel conflitto israeliano. Hadrien infine rappresenta il nuovo che avanza, affascinato dai racconti del nonno e figlio di una danzatrice goy (non ebrea). Il viaggio, che come sempre negli on the road è spirituale oltre che fisico, prende avvio proprio dalla morte del vecchio Ernest e dalla sua ultima volontà di farsi seppellire in Ucraina a fianco del suo primo amore.



Naturalmente il percorso sarà colmo di momenti rocamboleschi e spassosi, con tanto di fantasma del padre che compare ripetutamente a Simon, alternati però a un vero e proprio tragitto nella e della memoria, che giunge al culmine nella sequenza ambientata nel campo di concentramento e in quella della sepoltura finale. E alla presa di coscienza si abbinerà il processo di maturazione (non completa) del protagonista, che durante il viaggio si avvicinerà al figlio e arriverà a conoscere meglio sia il padre che i due strampalati zii Maurice e Mala (forse i più sgangherati della famiglia). Non male per un regista ai suoi primi passi che, sebbene non riesca evidentemente a raggiungere la grandezza dei modelli a cui si ispira, propone un concentrato di autoironia e freschezza non comune. Aspetto che rimanda a un altro grande autore di matrice ebraica, Woody Allen, con persino una citazione quasi esplicita del suo episodio di New York Stories “Edipo relitto”. Con Simon Konianski insomma si ride di gusto (anche se non tutte le trovate sono divertenti) e lo si fa all’insegna del politicamente scorretto. Che cosa chiedere di più a un road movie irriverente?

Voto: 6,5

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mercoledì 7 aprile 2010

Vincere di Marco Bellocchio (2009)



Regia: Marco Bellocchio
Soggetto: Marco Bellocchio
Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Daniela Ceselli
Fotografia: Daniele Ciprì
Montaggio: Francesca Calvelli
Musica: Carlo Crivelli
Scenografia: Marco Dentici
Costumi: Sergio Ballo
Interpreti: Giovanna Mezzogiorno (Ida Dalser), Filippo Timi (Benito Mussolini), Fausto Russo Alesi (Riccardo Paicher), Michela Cescon (Rachele Guidi), Pier Giorgio Bellocchio (Pietro Fedele), Corrado Invernizzi (Dottor Cappelletti), Paolo Pierobon (Giulio Bernardi), Bruno Cariello (Giudice), Francesca Picozza (Adelina), Simona Nobili (Madre superiora), Vanessa Scalera (Suora misericordiosa)
Produzione: Mario Gianani per Offside, Rai Cinema, Celluloid Dreams Productions in collaborazione con Istituto Luce
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 128’
Origine: Italia/Francia, 2009

MARCO BELLOCCHIO, UN REGISTA ANTICONFORMISTA



Nato e cresciuto a Bobbio, Marco Bellocchio è uno dei registi più anticonformisti della storia del cinema italiano. Il suo esordio risale al 1965 con I pugni in tasca, un film rivoluzionario per l’epoca che, accolto con grande entusiasmo dalla critica, ritrae con punte di crudeltà e sfrontatezza un ragazzo che, oppresso dai genitori borghesi, giunge a un atto di estrema follia. Una tale opera prima genera inevitabilmente grandi attese nei confronti del regista, erede della lezione neorealista e fortemente influenzato da Antonioni. Con La Cina è vicina (1967), Bellocchio mantiene i temi del suo esordio ma con risultati inferiori. Dopo il corale Amore e rabbia (1969), nel 1972 esce Sbatti il mostro in prima pagina, sceneggiato dal grande Goffredo Fofi, una raffigurazione amara e critica del giornalismo italiano. Dello stesso anno è Nel nome del padre che, con chiari riferimenti autobiografici, sottolinea le contraddizioni delle istituzioni educative cattoliche. Con il bellissimo documentario Matti da slegare (1975) e Marcia Trionfale (1976), Bellocchio sposta il tiro contro altre due istituzioni: il manicomio e la caserma. Segue un periodo grigio per l’autore che, tra adattamenti letterari, ritorni ai temi iniziali e una collaborazione infelice con lo psicanalista Massimo Fagioli, sciorina una serie di lavori pretenziosi e a tratti incomprensibili. Torna ai suoi fasti con Il principe di Homburg (1996), un adattamento onirico della tragedia di E. von Kleist, e La balia (1999), film ispirato a Pirandello che ha come tema principale l’incapacità di amare. Dopo lo straordinario documentario Addio del passato (2000), dedicato a Giuseppe Verdi, con L’ora di religione – Il sorriso di mia madre (2002) Bellocchio affronta una questione delicata mettendo in scena un pittore che, venuto a conoscenza della santificazione della madre, non sa se difendere la sua laicità o assecondare i familiari che vedono in tutto questo un’occasione di guadagno e prestigio. Nel 2003 cambia completamente registro e torna agli anni di piombo con Buongiorno, notte, racconto amaro e sofferto del sequestro Moro. Gli ultimi suoi lavori sono il documentario Sorelle (2006), Il regista di matrimoni (2006), opera meta cinematografica e riflessione sul laicismo e Vincere (2009), il film di questa sera, che racconta la drammatica esistenza di Ida Dalser, la prima moglie di Benito Mussolini.

VINCERE, UN MELODRAMMA STORICO



Presentato in concorso alla scorsa edizione del Festival di Cannes, Vincere ha scaturito un dibattito acceso che ha visto contrapposte da una parte la critica italiana e dall’altra quella straniera (in particolare francese). Bellocchio ha infatti denunciato un’accoglienza piuttosto fredda riservata dalla stampa del Belpaese al suo film, a suo avviso ingiustificabile soprattutto alla luce dell’approvazione unanime internazionale (Positif e i Cahiers du cinema si sono spesi in lunghi elogi). Partendo da una vicenda sconosciuta ai più, il regista ha infatti costruito un melodramma che rielabora la vita di Ida Dalser, la prima amante di Mussolini nonché madre del suo primogenito, che si batte contro tutto e tutti per rivendicare la sua relazione con il Duce. Un episodio marginale all’interno della Storia italiana, già analizzato in precedenza dal documentario Il segreto di Mussolini di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli, e dai libri La moglie di Mussolini di Marco Zeni e Il figlio segreto del duce di Alfredo Pieroni. Un fatto sicuramente interessante che ha permesso a Bellocchio di inserire all’interno del suo personale percorso autoriale una figura femminile di indubbio fascino, interpretata in maniera ineccepibile da Giovanna Mezzogiorno. A metà tra melodramma e analisi storica, il film ripercorre infatti alcuni temi cari al regista.



Torna una critica dura e senza appello al manicomio, istituzione che manca di credibilità e al servizio del potere. Potere rappresentato da quel regime fascista contro il quale Bellocchio non si scaglia direttamente, ma attraverso la psicologia dei suoi personaggi, alternando alla narrazione le immagini in bianco e nero dei cinegiornali dell’epoca. Come sempre il regista non lesina stilettate alle autorità: la Dalser sostiene a viva voce la sua relazione e non si arrende a quanti le consigliano o le intimano di fingere, fino ad arrivare a rivolgersi direttamente al Papa. Ed è curioso come in un periodo “anormale” come quello fascista la normalità finisca col divenire devianza e l’unica salvezza per la donna risieda nella finzione, allontanata con tenacia. Il regista piacentino è anche notoriamente attratto dalla ribellione, uno dei topoi della sua produzione, ed è per questo che una storia come quella di Vincere e un personaggio come quello della Dalser lo hanno interessato a tal punto. Il film è infatti il racconto di una rivolta, di una incapacità di sottomettersi al potere, sia a livello politico che a livello personale. Da I pugni in tasca a oggi il percorso di Bellocchio risulta uno dei più coerenti all’interno del panorama cinematografico italiano. E anche quelli che lo hanno criticato a Cannes saranno concordi nel ritenerlo uno degli autori più influenti della sua generazione.

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martedì 30 marzo 2010

Busto Arsizio Film Festival VIII - Serata finale



Chiusura con i fuochi d’artificio per il Busto Arsizio Film Festival che, tra i tanti ospiti, accoglie sul palco anche Oona Chaplin, la nipote del grande Charlie. Tra i film più premiati si segnalano La bella società di Gian Paolo Cugno e La straniera di Marco Turco. A East West East di Gjergj Xhuvani va il premio principale.

Chiusura con i fuochi d’artificio per questa ottava edizione del Busto Arsizio Film Festival, forse la migliore in assoluto. Una settimana che ha ribadito l’importanza del cinema all’interno della cultura italiana e che ha dato un forte segnale della rilevanza di un progetto che ha portato anche alla costituzione di una Film Commission e di un Istituto Cinematografico all’interno della città. Questo dimostra l’ottimo lavoro svolto da tutti gli organizzatori e in particolare da Gabriele Tosi, presidente del Festival, e da Vittorio Giacci, direttore artistico. La serata di premiazione è quindi un’occasione per festeggiare e per ringraziare tutti quelli che hanno contribuito a rendere il BAFF una realtà concreta e viva. E per l’occasione Busto Arsizio ha voluto stupire con tanto di red carpet posto nei pressi del cinema Sociale e con una serie di riconoscimenti da attribuire ai film del concorso Made in Italy. Premi scelti da una giuria capitanata da Carlo Lizzani con l’ausilio di Marco Pontecorvo, Isabella Ragonese, Alessandro D’Alatri e Italo Moscati. Tra i film più gratificati si segnalano La bella società di Gian Paolo Cugno (miglior produzione, migliore scenografia, migliore attore non protagonista – David Coco, riconoscimento del pubblico) e La straniera di Marco Turco (miglior montaggio, migliore attrice protagonista – Kaltoum Boufangacha, riconoscimento del pubblico). Per quel che riguarda il fuori concorso, le scuole hanno voluto premiare il film Generazione 1000 euro di Massimo Venier e l’Istituto Cinematografico Michelangelo Antonioni ha conferito un riconoscimento all’attrice Isabella Ragonese. Molti gli ospiti illustri che si sono susseguiti sul palco: oltre ai sopra citati giurati e registi, Enrico Ruggeri ha ritirato personalmente il premio alla migliore colonna sonora per East West East, Agnese Nano è stata selezionata come migliore attrice non protagonista per Aria e Massimo Poggio come migliore attore protagonista per Il compleanno. Ma il BAFF ha da sempre una sua dimensione internazionale, assicurata in questo caso da due figure di tutto rispetto: Oona Chaplin, attrice e nipote dell’indimenticabile Charlie e Signe Baumane, artista di riferimento dell’animazione indipendente newyorchese. Finale col botto con i tre premi più significativi: quello alla migliore opera prima che va a L’uomo fiammifero di Marco Chiarini, quello alla migliore regia per Felice Farina con il suo La fisica dell’acqua e soprattutto quello al miglior film, East West East di Gjergj Xhuvani. La cerimonia si conclude con i doverosi ringraziamenti agli organizzatori e con la proiezione del film vincitore, nell’attesa di una nuova edizione ancora più ricca e interessante.

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Mar Nero di Federico Bondi (2008)



Forte dei numerosi riconoscimenti ottenuti in diversi Festival (soprattutto a Locarno), Mar Nero, opera prima di Federico Bondi, esce anche per il mercato Home Video in una versione piuttosto essenziale. Buona la resa visiva, sufficiente l’audio e abbastanza trascurabili gli extra. Da Multimedia San Paolo

Piccolo film italiano accolto con grande entusiasmo al Festival di Locarno, Mar Nero, opera prima del giovane regista Federico Bondi, esce per il mercato Home Video dopo una distribuzione in sala non esattamente capillare. È questa l’occasione per recuperare uno spaccato intimo e personale, oltre che in parte autobiografico, sulle difficoltà della senilità e sui faticosi rapporti tra anziani e badanti (spesso non in regola). Per l’uscita Home Video Multimedia San Paolo ha optato per un’edizione piuttosto essenziale, caratterizzata da una resa video abbastanza soddisfacente, con immagini nitide e croma ben bilanciato, e da un audio sobrio, costituito da un’unica traccia italiana in 2.0 e da un utilizzo inconsistente del subwoofer. Se tutto sommato era lecito attendersi un tale modus operandi per un film rivolto a un target sostanzialmente ristretto, sorprende in negativo invece il comparto extra. Il trailer, la galleria fotografica e soprattutto un backstage di soli 5 minuti, che contiene due mini interviste al regista e alla straordinaria attrice Ilaria Occhini, sono dei meri riempitivi che non approfondiscono la realizzazione di un’opera che racchiude svariati argomenti di discussione. Ed è un peccato perché nel dietro le quinte emergono il carattere autobiografico del film e una serie di altri temi che avrebbero sicuramente meritato uno spazio più ampio magari in uno speciale approfondito. Ma si sa, chi si accontenta gode.

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